Smart working e residenza fiscale.

 

di Davide Emone | 4 novembre 2021 | News

 

Molti lavoratori italiani, residenti all’estero, dove svolgevano un’attività di lavoro dipendente, nel 2020 – per le note vicende legate alla pandemia – hanno deciso (oppure sono state costrette per ragioni di forza maggiore) di tornare in Italia, svolgendo lo stesso lavoro a distanza.

 

Inoltre, la pandemia ha accelerato lo sviluppo del lavoro a distanza, detto anche telelavoro o smart working, anche in stati diversi da quello di residenza e da quello delle aziende dove fisicamente ci si recava in precedenza per svolgere la prestazione lavorativa.

 

Forse, però, non tutti si sono interrogati sul rilievo fiscale, sulla tassazione del proprio reddito, di questi comportamenti.

 

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta a interpello n. 626 del 2021 ha fornito dei chiarimenti in merito al regime fiscale applicabile al reddito di lavoro dipendente prestato da un cittadino italiano residente all’estero (e regolarmente iscritto all’AIRE), il quale – a causa dell’emergenza Covid-19 – a marzo 2020 era tornato in Italia, lavorando da casa in smart working per il proprio datore di lavoro.

 

Occorre evidenziare che la normativa italiana prevede che i soggetti residenti in Italia vengano tassati secondo le regole del Fisco italiano per tutti i loro redditi, conseguiti anche all’estero. D’altra parte, in caso di soggetti non residenti in Italia, essi vedranno tassati in Italia solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato.

 

A fini tributari, si è residenti in Italia se si verifica una delle tre condizioni che seguono per almeno 183 giorni nel corso dell’anno:

– iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, oppure

domicilio in Italia (centro dei propri interessi vitali)

residenza civilistica in Italia (dimora abituale)

 

In caso di doppia imposizione, ossia di due Stati che ritengono – ognuno – di tassare interamente il reddito dello stesso soggetto, si applica (a patto che sia stata stipulata) la Convenzione contro le doppie imposizione pattuita tra i due Stati, che contiene dei criteri per stabile quale dei due prevalga nella potestà impositiva. Se non è presente una Convenzione, l’Italia applica, per evitare la doppia imposizione, il metodo del credito d’imposta, ossia sottrae dalle tasse che il contribuente dovrebbe pagare in Italia, quelle che ha già pagato all’estero.

 

Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che il lavoratore, anche se iscritto all’AIRE e residente anagraficamente all’estero, il quale però – per la maggior parte dell’anno – lavora in smart working dall’Italia per un datore di lavoro straniero, dovrà essere considerato fiscalmente residente in Italia per quell’anno. Il luogo in cui si svolge la prestazione lavorativa è infatti quello dove il lavoratore è fisicamente presente (Italia), non già il paese estero del datore di lavoro.

 

La conseguenza è l’imponibilità in Italia del reddito percepito dal lavoratore. Con differente non irrilevanti.

 

Poniamo, ad esempio, che il reddito annuale lordo da lavoro dipendente sia di Euro 50.000 e che le imposte applicate dallo stato estero siano del 20%. Il lavoratore pagherà € 10.000 di imposte.

 

Tuttavia, se considerato residente in Italia perché vi ha dimorato nell’anno più di 183 giorni, egli dovrà pagare l’Irpef anche al fisco italiano, che – sulla stessa cifra – ammonta (di base) a € 15.320. Anche scontando l’imposta già pagata all’estero, il contribuente sarà tenuto a versare all’Agenzia delle Entrate un importo di Euro 5.320.

 

Bisogna ricordare, poi, che se ciò non avviene, l’Amministrazione Finanziaria potrà accertare l’omessa dichiarazione e irrogare sanzioni amministrative di importo rilevante, oltre a recuperare il tributo e gli interessi moratori.

 

Occorre fare molta attenzione, quindi, nella scelta di svolgere la propria attività lavorativa a distanza, dimorando in un paese diverso da quello di residenza, poiché questa decisione ha importanti ricadute fiscali!

 

Nella soluzione esposta dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 626/2021, però, non sono state considerate le evidenti circostanze eccezionali di forza maggiore che hanno caratterizzato l’anno 2020, vale a dire i fatti che hanno impedito al lavoratore di tornare a svolgere il proprio lavoro in azienda, a causa dell’emergenza pandemica.

 

In caso di future contestazioni e accertamenti riferiti all’anno 2020, il contribuente che dovesse ricevere un avviso di accertamento con questo tipo di rilievi potrà – a mio avviso – far valere la causa di forza maggiore, se opportunamente provata, per non vedersi considerato residente in Italia a fini fiscali.

 

Inoltre, è di decisiva importanza il profilo probatorio: la prova della permanenza nel territorio dello Stato per più di 183 deve essere fornita, salvo eccezioni, dall’Agenzia delle Entrate, e molte affermazioni contenute generalmente nella motivazione degli atti impositivi possono essere contestate se non rigorosamente provate.

 

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